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Suona la sveglia, Pierre apre gli occhi, si alza e si fa strada tra i corpi delle Mucche che ingombrano l’appartamento, poi va in cucina, dove si prepara il caffè sotto lo sguardo curioso degli Animali. Una scena di intimo calore domestico.
Dissolvenza. La sveglia suona di nuovo, questa volta nella realtà e non in sogno, e inizia la giornata lavorativa di Pierre.
Nella prima scena c’è già tutto l’intento del primo lungometraggio di Hubert Charuel, figlio di allevatori. Le Mucche occupano totalmente la mente del protagonista, sono il suo lavoro, la sua vita, non c’è spazio per altro, né per gli amici, né per l’amore, né per lo svago e nemmeno per i genitori.
Il titolo italiano aggiunge una frase all’originale, “un eroe singolare”.
Ed è così che ci viene descritto questo giovane allevatore che non esita ad uccidere con le sue stesse mani due Mucche che hanno contratto la febbre emorragica – una con un colpo di accetta, chiedendole “scusa”, l’altra con un colpo di fucile – e poi a nasconderne i corpi per evitare che la sanità pubblica abbatta l’intera mandria.
Rispetto alla dimensione onirica della scena d’apertura, il resto ha un taglio molto realistico; la macchina da presa segue Pierre nelle sue mansioni quotidiane: la mungitura meccanica delle Mucche, la nascita di un vitellino – che viene subito allontanato dalla madre e costretto a bere il suo primo latte da un secchio di plastica -, la foratura delle orecchie per attaccare le marche auricolari, il pranzo a casa dei genitori, le visite della sorella veterinaria. Apprendiamo che Pierre è il miglior allevatore della zona, primo per qualità del latte. Un primato che lo rende orgoglioso e che non vuole assolutamente perdere.
Quando scopre la prima Mucca malata, fa di tutto per tenere il caso nascosto alle autorità sanitarie, scivolando in una sorte di ossessione; il resto del film vede Pierre coinvolto in una serie di sotterfugi per scongiurare il peggio. Un peggio che non potrà essere evitato. Alla fine l’intera mandria, composta da circa 25 Mucche, sarà abbattuta dall’autorità sanitaria.
Tra uno spot di una qualsiasi marca di mozzarella e Petit Paysan la distanza è solo estetica, ma non narrativa. Entrambi mirano a vendere qualcosa: un prodotto nel primo caso, un concetto nel secondo, quello del buon allevatore compassionevole che ama tanto i “suoi” Animali, li tratta in modo etico ed è disposto a ucciderli con le sue stesse mani pur di salvarli dall’abbattimento dell’autorità sanitaria; come se quelle povere Mucche, dopo una vita di schiavitù e sfruttamento non sarebbero comunque state mandate al macello nel momento in cui la produzione di latte sarebbe calata e il profitto diminuito.
Petit Paysan – ben tre nomination ai César e vincitore di diversi premi – mette in scena una propaganda molto insidiosa poiché invisibile: il taglio realistico, quasi documentaristico, trae in inganno lo spettatore che si convince così della veridicità del tutto. Lo spettatore è rassicurato perché viene confermato tutto ciò che ha sempre creduto di sapere sul lavoro di chi alleva Animali. Un lavoro duro e faticoso scelto per passione perché solo la passione e il sacrificio fanno ottenere prodotti di ottima qualità. L’amico allevatore di Pierre, che è disposto a fare meno sacrifici ed è passato alla mungitura con i robot così da avere più tempo libero per sé, non risulta infatti tra i primi in graduatoria per qualità del latte.
I controlli sanitari sono efficaci, al minimo rischio di malattia si prosegue con l’abbattimento sistematico degli Animali, anche di quelli sani, così come si farebbe con un qualsiasi prodotto fallato che potrebbe rovinare l’immagine di un’azienda.
Innanzitutto c’è una prima grande menzogna: la mandria è composta da 27 Mucche definite “da latte”. Mucche che devono essere munte quotidianamente e che vengono mostrate sempre e soltanto in funzione di questo. Sono macchine viventi. Certo, respirano e si muovono, a volte fanno capricci e si agitano un po’, ma l’allevatore interviene a ristabilire l’ordine, in fondo è quello che devono fare delle Mucche “da latte”, ossia produrre latte. Non ci viene mostrato nulla dell’etologia di questi splendidi Animali, sono sempre attaccate alla mungitrice meccanica e, soprattutto, non ci sono i vitelli (a parte quello appena nato). Prima che i funzionari della sanità procedano con l’abbattimento, Pierre insiste per poterle mungere un’ultima volta: “così saranno più calme”, comunica agli spettatori.
Il messaggio che arriva è che le Mucche esistano per fare il latte, che abbiano sempre il latte. Sappiamo che non è così, che le Mucche, come tutti i mammiferi, producono il latte solo dopo il parto e che i vitellini maschi, dopo lo svezzamento e raggiunto il peso necessario per il mercato, vengono mandati al macello. Ma a questo non c’è il minimo accenno nel film. Tutte hanno le mammelle gonfie, ma non si sa quando abbiano partorito e dove siano i loro vitellini.
Poco prima dell’unico parto che viene mostrato, Pierre si augura che sia femmina. Una femmina significa un’altra schiava per produrre il latte. Significa soldi. Ma ovviamente nel film questo non viene detto, si fa semplicemente riferimento alle ottime qualità genetiche della madre.
Pierre non ama quelli che definisce i “suoi” Animali. Pierre ama il suo lavoro, ossia il denaro che gli frutta.
Pierre non le vede nemmeno le “sue” Mucche. Non vede individui senzienti, vede soltanto delle macchine.
Quando due delle Mucche iniziano a stare male e sono in evidente stato di sofferenza, le uccide per evitare il contagio al resto della mandria, non per compassione o per farle smettere di soffrire. Le uccide per salvare la sua fonte di reddito, non per mettere in salvo altri individui.
Pierre è un perfetto eroe dei giorni nostri, uno che concepisce gli altri Animali solo in funzione dell’uso che se ne può fare e non esita a compiere azioni illegali pur di mantenere il suo business. Non c’è spazio per il minimo dubbio etico proprio perché gli Animali non vengono mai, nemmeno per un secondo, mostrati come individui. Tra Pierre e le Mucche sussiste un rapporto esclusivamente gerarchico: lui è il padrone, gli Animali sono schiavi. Quando si lamentano per la marcatura delle orecchie o perché non vogliono essere munte, Pierre le ammonisce, a volte colpendole con un bastone, come si farebbe con un bambino che non sta facendo quello che deve fare.
A metà film scopriamo che Pierre è anche un cacciatore. Gli amici lo invitano a una battuta di caccia per farlo distrarre un po’. E questo è un altro elemento significativo del rapporto di Pierre con gli altri Animali.
Significativa la scelta dei movimenti di macchina, tutti incentrati sulla figura di Pierre. Ma MDP lo segue passo passo, indugia sul suo volto in frequenti primi piani, racconta la sua ossessione. Si parla solo di lui. Gli Animali non ci sono. Non ci sono individui. Solo oggetti, strumenti di lavoro, macchine.
Ho letto alcune recensioni che ne parlano come di un film toccante. Dando per buona l’onestà intellettuale di scrive, mi sconvolge l’incapacità di andare oltre la finzione, di non capire che Pierre non è un eroe, ma uno schiavista, uno sfruttatore, un assassino e che questa non è l’opera sincera di uno studioso di cinema, ma uno squallido prodotto di propaganda dell’industria casearia.
Rita Ciatti
Fotografia in apertura: un fotogramma del lungometraggio Petit Paysan
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Pure io ho letto parecchie recensioni che lo descrivono come film toccante e commovente. Penso che sia un film molto pericoloso perché veste con l’abito da sera una crudeltà come quella che sta dietro l’allevamento. La caccia poi…
Mi hanno turbata anche i premi che ha vinto.
Non so dove sia finito il cinema francese se si lascia narcotizzare da un’opera così mistificatoria.
Mi suscita molta amarezza questo film. Non ci bastano gli spot pubblicitari a edulcorare lo sfruttamento animale. Adesso arrivano i film pluripremiati.
Spero che qualcuno alzi la testa e lo critichi come si deve.
Brava Rita.
Grazie Rita Ciatti. Per questa importante recensione di un documento che andrebbe divulgato ma non con il suo vero intento, bensì raccontando la tragica realtà… quella che hai ben descritto tu in poche ma significative parole. Brava.
Grazie a te Roberto, anche per la condivisione su FB.
Grazie Paola.
Ma poi di commovente non ha proprio nulla, semmai di straziante e violento, ma lo strazio delle povere mucche lo vediamo solo noi.
Sì, ha vinto parecchi premi e molte testate giornalistiche importanti lo hanno acclamato come capolavoro.
Dietro c’è proprio l’intento di fare propaganda, il regista è figlio di allevatori.
Unica nota positiva: a Roma è stato poco distribuito, lo davano solo in una sala.
Come per ogni cosa chi ha deciso di intraprendere un’esistenza compassionevole ed empatica vede la realtà da una prospettiva diversa: ciò che per i più è bello e commovente, per noi appare per ciò che in realtà è per chi subisce il nostro potere: triste e crudele.
Ecco un link con parecchie recensioni http://www.comitati-cittadini.org/2018/03/petit-paysan-%E2%80%93-un-eroe-singolare-film-in-prima-visione-nazionale-da-sabato-24-a-lunedi-26-marzo-al-cinema-excelsior-di-falconara-marittima/
E’ grottesco leggere ovunque che è un film in cui emerge l’amore per gli animali. Ovviamente è stato giudicato un capolavoro anche da Slow Food, grande amante degli animali!
Spero che questo film non dia origine a una lunga serie di nefandezze cinematografiche trasferendo sul grande schermo ciò che sta avvenendo sempre più insistentemente negli spot pubblicitari col proliferare di fattorie idilliache, bianchi mulini, massaggi per mucche, Lola e Rosita… E’ un quadro dell’orrore mascherato benissimo. Oltre ai disgraziati animali, i bambini e le bambine sono vittime eccellenti di queste bugie degli adulti.
Slow Food, capirai… sono i primi ad aver sdoganato il falso concetto di “carne felice”.
Spero anche io che il cinema non si faccia promotore di questi messaggi fuorvianti sul “benessere animale” e sul buon allevatore che ama i “suoi” animali, come se non bastassero le già tanto insidiose pubblicità.
Complimenti, Rita. Un’analisi reale e scevra da condizionamenti. Peccato constatare quanto ancora sia lontano il concetto di antispecismo. Dall’ideatore del film a chi lo ha premiato. Patience.
Grazie Lina.
Purtroppo sì, siamo ancora molto lontani dal far comprendere che gli altri animali sono individui da rispettare e non da usare per i nostri interessi.
Peggio: il film in questione è subdolamente e volontariamente specista
Qualche anno fa provavo fastidio per chi considera gli animali inferiori a noi, per chi li sfrutta, per chi li maltratta e via elencando.
Più passa il tempo, più cresce accanto a questo fastidio, quello di chi dice di amare gli animali e poi fa loro ciò che sappiamo.
Gli allevatori sono dei campioni in questo. Forse sono i migliori. I programmi televisivi su agricoltura e allevamento, come molti spot, presentano queste figure umane che trasudano di amore per i loro animali e anche chi non è allevatore crede alle frottole che raccontano.
Questa mistificazione mi fa uscire pazza perché è pericolosissima.
Ovviamente gli allevatori sono in buona compagnia del fantino che ama il suo cavallo, del vivisettore che ama il topolino, del cacciatore che ama il canto degli uccelli, del pescatore che ama il mare, del torero che ama il toro eccetera.
E’ una battaglia dura da combattere perché bisogna farla in questa colata di amore e i cattivoni siamo noi che portiamo odio.
Ciao Giovanni,
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