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Fonte: Ideeinoltre
L’epoca della biofobia
Tempo fa mi trovavo a dormire nella mia casa di famiglia nella campagna fiorentina, cosa che mi capita piuttosto di rado. Mi giravo e rigiravo sotto le coperte stentando a prendere sonno, percorso da una leggera inquietudine. Davo la colpa al caffè, poi alla cena troppo abbondante, poi a questa o a quella preoccupazione. D’un tratto mi resi conto della vera ragione per cui restavo sveglio: il silenzio. Quel silenzio buio, interrotto solo a tratti dal canto di un grillo, dallo scricchiolio di una trave, dal gracidare di una rana mi turbava nel profondo. Mi riportava ad una dimensione troppo naturale a cui non ero più abituato.
Eppure, mi dicevo, da piccolo trascorrevo lunghe estati in campagna, giocavo a rotolarmi nei campi e inseguivo cavallette, mantidi e insetti stecco; mi sentivo pienamente parte di quel mondo del quale adesso la sola eco mi incute timore. Cosa è cambiato in me?
Ho riflettuto a lungo su quella sensazione, che ho provato ancora e ancora in altre situazioni, e ne ho tratto alcune conclusioni. Viviamo in un’epoca strana, in cui tutto ciò che dovrebbe essere più familiare e naturale ci risulta estraneo e sinistro. Viceversa l’artificiale è diventato naturale. Temiamo la terra perché è sporca e in essa si annidano germi pronti ad attaccarci. Abbiamo il culto dell’igiene totale: i luoghi che abitiamo devono essere asettici, privi di qualsiasi forma di vita all’infuori di quelle scelte da noi. Alle forme naturali, in cui mai niente è uguale a nient’altro, preferiamo quelle artificiali, standardizzate e indistinguibili. Alla frutta dell’albero, ammaccata e irregolare, preferiamo quella ben più rassicurante contenuta in scatole di plastica, già tagliata e confezionata. Mangiamo carne affettata che non ricorda più in niente l’animale da cui proviene, perché se ne avesse ancora le sembianze probabilmente non riusciremmo a mandarne giù nemmeno un boccone. Il nostro stesso corpo è diventato un estraneo, ne abbiamo quasi paura, lo osserviamo intimoriti di trovarvi qualcosa che non va, lo nutriamo male, non vi prestiamo attenzione per poi bombardarlo di “cure” non appena avvertiamo i sintomi di qualche disagio.
In altre parole, temiamo la vita. Ecco, viviamo nell’era della biofobia.
Ma come siamo arrivati fin qui? Per capirlo basta dare uno sguardo alla storia, o ancora meglio all’idea stessa di storia. Ad essa nel corso dei secoli sono state associate varie immagini. Nell’antichità la storia aveva un andamento ciclico, conferitogli dai movimenti rotatori caratteristici della natura. Essa altro non era che il continuo ripetersi dei giorni, delle stagioni, delle ere geologiche. All’interno di questi cerchi concentrici si inseriva, unico tratto lineare, la vita umana. «Questo è l’essere mortale – scrive Hannah Arendt nello spiegare il concetto di storia nell’antichità greca –: muoversi in linea retta in un universo dove tutto ciò che si muove segue, semmai, un moto ciclico».
È stato il cristianesimo a conferire per la prima volta alla storia un andamento lineare. Ecco apparire un termine destinato ad accompagnare l’umanità per un lungo periodo: progresso. L’idea di progresso rompe il cerchio naturale della storia. L’umanità – in verità una sua parte – sale su un treno salvifico che muove verso luoghi sempre migliori, di cui si conosce solo la partenza, mentre l’arrivo è situato all’infinito.
Questo concetto di storia lineare può essere letto anche come un progressivo affrancamento dell’uomo dalle leggi naturali. Questo affrancamento, iniziato con la rottura simbolica del legame fra idea di storia e ciclicità naturale, ha trovato compimento secoli dopo nei concetti di sviluppo tecnologico e di crescita economica. Lo sviluppo ha rotto le catene che legavano l’uomo ai ritmi della natura, alle stagioni, ai raccolti; il teorema della crescita economica, assieme col suo principale corollario, il consumismo, ha spezzato il ciclo di rigenerazione della materia e introdotto al suo posto un meccanismo lineare, che inizia con l’estrazione della materia e finisce con la creazione di rifiuto (concetto, quest’ultimo, del tutto inedito).
Oggi però anche questa concezione lineare della storia è entrata in crisi. Dal punto di vista filosofico, la fede nel progresso ha subito un duro colpo nella prima metà del secolo scorso. Le due guerre mondiali hanno svelato d’un tratto al mondo intero il lato oscuro della tecnica. Così se negli anni fra le due guerre ancora Marinetti gridava «Abbiate fiducia nel progresso, che ha sempre ragione, anche quando ha torto, perché è il movimento, la vita, la lotta, la speranza», qualche anno dopo Elias Canetti commentava laconico «Il progresso ha i suoi svantaggi; di tanto in tanto esplode». Ci siamo spinti tanto oltre nel distaccarci dalla natura che oramai siamo al paradosso che dobbiamo noi preoccuparci di essa. Se un tempo la natura era vissuta come una madre presente e oppressiva, che legava l’uomo ai suoi ritmi e ai suoi capricci, oggi può essere al massimo una nonna indifesa, che abbiamo abbandonato e verso la quale proviamo un misto di pietà e senso di colpa. Dominiamo le leggi naturali, viviamo al di sopra di esse. Così ogni volta che abbiamo a che fare con tali leggi più da vicino ci sentiamo turbati, come ci capita a volte nell’osservare una nostra vecchia foto appartenente ad un passato da cui ci sentiamo ormai estranei. L’unico concetto riconducibile alla linearità storica che aveva resistito fino ad oggi, quello di crescita economica, vacilla adesso di fronte ad una crisi che ne mette a nudo tutte le debolezze e le contraddizioni.
Il problema è che ormai Le linee dritte dei binari sono sempre meno marcate, all’orizzonte si scorgono nubi sempre più nere. L’emergenza climatico-ambientale ci dice che uno stile di vita planetario basato sul consumo è insostenibile. È vero, resiste in noi una vaga idea di progresso, ma ha perso ogni accezione positiva e si associa piuttosto ad uno stato di ansia costante, alla «minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che – scrive Bauman – invece di promettere pace e sollievo non preannuncia altro che crisi e affanni continui, senza un attimo di tregua». Sentiamo che continuiamo a muoverci, e velocemente, ma ci è divenuto ignoto il fine ultimo della folle corsa; il treno si è trasformato in una bestia impazzita che ansima e brancola nel buio, e noi restiamo aggrappati sulla sua groppa irsuta, col timore che possa schiantarsi o precipitare da un momento all’altro.
«Fermiamoci! Torniamo indietro!», verrebbe da gridare. Ma se, impauriti e nudi come il Re della celebre favola, corriamo alla ricerca dei nostri vecchi abiti, della nostra vecchia madre, la natura, troviamo un’estranea nei cui occhi non scorgiamo ormai neppure un briciolo dell’antica familiarità. Una vecchia esausta e maltrattata, a cui vorremmo tornare ad appartenere ma che apparentemente non ci vuole più. Ne siamo estranei, ne abbiamo paura.
Ma allora siamo senza speranza? Potremo mai riaggiustare il meccanismo, piegare la barra della storia facendo combaciare di nuovo le due estremità in un nuovo cerchio? Tornare ad appartenere alla natura e ai suoi meccanismi?
Non ci resta che riacciuffare quei vincoli strappati dal progresso e iniziare a tesserne le cime fra loro, lentamente. Incollare i cocci esplosi finché al loro interno non torneremo a vedere un’immagine coerente. Sarà un processo individuale e collettivo al tempo stesso. E anche piuttosto lungo. Sperando di essere ancora in tempo.
Andrea Degli’Innocenti
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A proposito di artificiale e naturale, vorrei aggiungere un frammento di quanto scritto, anzi detto, da Erich Fromm durante un’intervista poi riproposta in una pubblicazione nel 1984, che mi sembra molto suggestiva e significativa di quanto abbiamo sotto agli occhi ora, e sempre più avremo… ‘rifuggiamo dalla vita’, ne abbiamo paura, perché la vita è fondamentalmente libera.
“Per necrofilia intendo l’attrazione per tutto ciò che è morto, privo di vita, che tende alla dissoluzione, alla distruzione di nessi vitali, in altre parole, l’attrazione per ciò che è puramente meccanico in luogo dell’amore per ciò che è vivente. Necros significa cadavere, e necrofilia non è l’amore per la morte, bensì amore per il morto, per tutto quanto non è vivente. A esso si contrappone l’amore per il vivente, per tutto quanto cresce, è strutturato, non è smembrato, costituisce un’unità.
[…] Si può dimostrare che le tendenze distruttive, le tendenze alla morte, sono un risultato di un fallimento dell’arte di vivere, di un modo di vivere sbagliato. […]- E crede che la necrofilia sia in aumento? – Temo di sì, e lo temo perché a incrementarla è l’eccessivo interesse per tutto ciò che è meccanico. Noi rifuggiamo dalla vita.”
(Erich Fromm, Süddeutsche Rundfunk / 1971-1979)
Si potrebbe aggiungere che c’è anche un ulteriore risvolto inquietante di tale propensione alla fuga dalla vita: sempre più la nostra tecnologia si spinge verso frontiere inesplorate della non vita, che potrebbe divenire paradossalmente nuova vita costretta a seguire leggi non più naturali, ma esclusivamente umane. Un esempio tra tutti sono i robot e l’intelligenza artificiale.
Vero. Anche se io personalmente penso che quello che stiamo scegliendo (o che abbiamo già scelto) sia semplicemente il ramo evolutivo sbagliato. Un ramo che forse ci appare pieno di promesse, ma che in realtà è un ramo secco. Crediamo nell’illimitatezza delle possibilità che ci si aprono davanti, mentre a mio parere questa via è assolutamente limitata. Ciò che abbiamo lasciato, al contrario, conteneva la vera illimitatezza.
Quanto discusso ha molto a che fare (oltre a quanto già esposto nell’articolo) con il concetto di morte, perché se fossimo costretti ad ammettere che tutto morirà e tornerà ad essere ciò che era in principio (anche noi), allora dovremmo fare i conti con la nostra atavica paura di perdere la vita (tornando alla terra come si sul dire). Gli altri Animali accettano la morte con molta più serenità di noi Umani che, nel tentativo di evitarla, vorremmo allungare all’infinito la linea retta della vita che artificialmente ci siamo creati (il ramo evolutivo sbagliato?). Da ciò la biofobia di cui sopra.
Ci stiamo allontanando sempre più da tutto ciò che è Naturale, e con esso i suoi abitanti. Siamo lontani anche da noi stessi, sempre in competizione e in estremo confronto. L’evoluzione della tecnica, il cosiddetto progresso, ha trasformato ogni essenza primordiale rendendoci quindi schiavi di un sistema che si evolve velocemente, e con esso anche noi stessi. Basti pensare al carnismo e a tutti i suoi aspetti negativi. E’ pur vero che l’essere Umano mangia Animali da sempre, ma non in questo modo e non con questi mezzi.
Ritrarsi da tutto ciò pare un utopia, considerando anche che le nuove leve spesso sono indirizzate già dall’infanzia verso la psicosi da consumismo (vedi spot televisivi). Un bambino oggi a 5 anni ha già in mano uno smartphone connesso alla rete! E’ un beneficio? E’ sintomo di cambiamento da eguagliarsi alla massa che corre verso il futuro?
Non è per essere per forza dei rompi scatole, ma è opportuno che ogni evoluzione segua determinati risvolti etici. Anche perchè se un’ adolescente viene stuprata da 5 suoi coetanei, senza che loro possano avere rimorso o pentimento, significa che abbiamo superato la soglia della moralità e del giudizio. Certamente in passato sono accaduti ben altri crimini difficili da dimenticare, l’olocausto ancora riecheggia tristemente nelle menti, ma è importante riflettere su come e perchè nonostante i progressi ottenuti ancora oggi si commettono atroci violenze: il genocidio Animale non sembra diminuire, le malattie e le carestie aumentano, i conflitti e il terrorismo pare essere una quotidianità nelle notizie e nei discorsi interpersonali. Perchè allora accade tutto questo? L’Umanità è condannata per colpa di un suo istinto autodistruttivo ed altamente malvagio? O l’egoismo che pervade è così dannatamente diffuso da non riuscire a placare quel senso morale così presente in molti soggetti?
Sembra un inutile rincorsa di dubbi ed incertezze, ma come dice l’autore dell’articolo:
“Ma allora siamo senza speranza? Potremo mai riaggiustare il meccanismo, piegare la barra della storia facendo combaciare di nuovo le due estremità in un nuovo cerchio? Tornare ad appartenere alla natura e ai suoi meccanismi?
Non ci resta che riacciuffare quei vincoli strappati dal progresso e iniziare a tesserne le cime fra loro, lentamente. Incollare i cocci esplosi finché al loro interno non torneremo a vedere un’immagine coerente. Sarà un processo individuale e collettivo al tempo stesso. E anche piuttosto lungo. Sperando di essere ancora in tempo.”
Di sicuro i “vincoli strappati dal progresso” li dovremo ripristinare, c’è comunque in generale anche da dire che è necessario non cadere nello stereotipo opposto a quello attualmente vigente (tutto ciò che è artificiale o creato dalla specie umana è buono) ossia che tutto ciò che è Natura sia per forza buono. Il nostro compito a questo punto è quello di comprendere senza autoreferenzialità e egoismo cosa può essere mantenuto della nostra civiltà e cosa deve essere recuperato dalla Natura.