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Una risposta di Danilo Gatto ad un articolo dal titolo “Potere animale” pubblicato su Internazionale n° 1184 del dicembre 2016.
Impotenza animale
Che a livello mainstream si parli della questione animale è senza dubbio un fatto positivo. Che aumentino i programmi e gli articoli sull’argomento, i servizi d’inchiesta, i dibattiti tra figure “autorevoli” è segno di una vivacità culturale in precedenza assente. Eppure, la nostra riflessione dovrebbe tenere in maggior considerazione l’aspetto qualitativo anziché quello quantitativo; in sostanza, il “come” se ne parla piuttosto che il “quanto”. E ciò dovrebbe rappresentare una priorità in particolare quando testate a tiratura vastissima decidono di pubblicare un articolo sul tema e, addirittura, di realizzarci sopra una copertina con tanto di titolo roboante.
È il caso di Potere animale, articolo di James McWilliams, apparso il 16 Dicembre 2016 sul settimanale Internazionale (n° 1184). L’importanza della testata e il titolo d’impatto hanno generato un ottimismo insolito ancor prima che l’articolo in sé fosse letto e approfondito. Sono subito scattati, perciò, i selfie di rito con la rivista appena acquistata, i commenti speranzosi, insomma un entusiasmo da rivoluzione compiuta, nonostante l’esperienza suggerisca tutt’altro e anzi consigli di andare con i piedi di piombo ad analizzare simili eventi.
Ciò che, a una prima lettura, salta immediatamente all’occhio è che nessun “Potere animale” è in realtà teorizzato. L’articolo parte descrivendo l’interazione tra Dylan, Cane guida in procinto di essere assegnato a un partner umano non vedente, e le sue addestratrici. Da qui prende spunto tutta una riflessione sull’abolizionismo, sulle teorie di Francione e sulle implicazioni che un tale approccio comporterebbe nel caso specifico dei Cani guida per non vedenti umani o, più in generale, di quegli Animali che con il loro addestramento recano un servizio all’Umano. Fin qui nulla di strano, anzi, il tono dato all’articolo è quello tipico di chi ha sempre nutrito diffidenza per certi argomenti ma che, pian piano ne riconosce la razionalità intrinseca. Nulla di strano, quindi, se non fosse che nella parte centrale dell’articolo l’idea abolizionista è messa in “seria” discussione dagli studi di Will Kymlicka, politologo, e Sue Donaldson, ricercatrice, entrambi canadesi.
La loro teoria di fondo afferma, in aperto contrasto con quella abolizionista, che l’addomesticamento non sia necessariamente sfruttamento. Anzi, addomesticare ancor più gli Animali significherebbe permettere loro l’entrata di diritto nella società civile umana. Non a caso, l’opera in cui tale teoria è esposta si intitola Zoopolis. A political theory of animal rights. Fondamentalmente, stando all’idea degli autori, l’Animale potrebbe arrivare a possedere una parziale cittadinanza, con tutto ciò che essa comporta. Ciò avverrebbe tramite l’utilizzo dell’agentività dipendente, una sorta di tutela umana volta alla rappresentanza dell’Animale, sistema già utilizzato per quelle categorie sociali umane non in grado di occuparsi in modo indipendente della propria vita; insomma, una tutela “non molto diversa da quella che esercitano i genitori sui figli quando sono piccoli”1 , conferma McWilliams.
La superficialità di un tale approccio si evidenzia già da questo momento: l’impostazione pedagogica diffusa è tutt’altro che “benevola”, per usare un termine caro all’articolista. Oltre alla soddisfazione dei più elementari bisogni alimentari, igienici, affettivi, il bambino, fin dai primissimi giorni della sua esistenza, si trova inserito all’interno di un contesto familiare molto spesso incapace di comprenderne le reali esigenze e quindi orientato a esercitare pratiche inconsciamente repressive e dannose per lo sviluppo della soggettività del bambino stesso; e ciò anche a un livello semplicemente fisico (pensiamo, ad esempio, all’educazione sfinterica)2. Per di più, la gerarchizzazione dei ruoli sociali parte proprio dall’approccio pedagogico: oltre ad introiettare i meccanismi psicologici di legittimazione dell’autorità, il bambino fin da subito si trova materialmente dipendente dall’autorità (non solo politica ma anche economica) familiare; e questo anche molto tempo dopo aver raggiunto una relativa autonomia.
L’Animale, percorrendo questo esatto percorso tramite la sua totale sottomissione alla “tutela” umana, sarebbe sistematicamente represso e piegato alle necessità di una società in cui non ha mai chiesto di entrare a far parte. Si può quindi dire che l’esempio del genitore amorevole che accudisce il bambino nei modi che abbiamo citato non corrisponde affatto all’idea di libertà verso cui l’antispecismo tende.
Certo, si potrebbe obbiettare che un mondo simile a quello concepito da Kymlicka e Donaldson sia preferibile rispetto a quello odierno in cui gli Animali muoiono a miliardi. E certamente si potrebbe obbiettare che la cittadinanza estesa all’Animale sotto forma di addomesticamento non sia altro che una mossa pragmatica, volta a migliorare le condizioni dell’Animale nell’immediato, e che nulla impedirebbe, più avanti, di procedere per rompere le catene dell’addomesticamento e garantire finalmente una libertà più ampia.
È ragionevole, però, non condividere l’ottimismo di questa seconda obiezione.
L’addomesticamento infatti puzza terribilmente di definitivo, non soltanto da un punto di vista storico (l’Animale domestico per eccellenza, il Cane, perde la sua selvatichezza a partire dal 15.000 a.C.)3 ma prettamente pratico. In L’ecologia della libertà, Bookchin, criticando la prospettiva di una natura “pacificata”, riporta un passaggio significativo dell’ambientalista Paul Shepard:
“Il carattere e la personalità degli animali domestici non sono solo più mansueti dei loro corrispettivi selvatici, ma anche più fiacchi, c’è cioè in qualche modo una minore definizione. Naturalmente non c’è nulla di mansueto in un toro infuriato o in un ringhioso cane da guardia, ma le loro madri erano docili: una volta che un organismo è spogliato della sua selvatica naturalità, l’allevatore ne può trarre qualsivoglia bizzarria, a sua volontà. Può essere reso violento senza essere veramente feroce. Quest’ultimo termine implica una nicchia ecologica da cui l’animale addomesticato è stato tolto. Le nicchie sono maestri severi. Sfuggire loro non è libertà ma perdita di direzione.”4
La perdita di direzione, l’appiattimento delle esigenze e delle tendenze dei singoli Animali, la regolazione arbitraria dei ritmi biologici in nome di una società “zoopolitica” non cancellerebbe l’allevamento ma lo camufferebbe da benevolenza verso il non umano. Conosciamo assai bene le conseguenze del travestimento di qualcosa considerato universalmente sbagliato: lo sfruttamento è più accettabile se chiamato “lavoro”, la distruzione ambientale più dolce se chiamata “crescita”. L’Animale, una volta addomesticato e reso fiacco, docile, a occhi umani per nulla concentrati sul suo reale benessere non mostrerebbe alcuna sofferenza evidente per il mancato esercizio delle sue più basilari esigenze. Ogni cosa si normalizzerebbe, ogni cosa comincerebbe ad apparire “naturale”. L’incapacità di comprendere l’Altro da Sé, di riconoscerne la soggettività sono fenomeni strutturali all’interno di una società permeata di egoismo e ciò si può facilmente evincere anche dalla maniera in cui l’Umano si rapporta con gli altri Umani, in particolare con gli ultimi tra gli ultimi. È, perciò, di vitale importanza chiarire come, riprendendo Shepard, la ferocia sia il compimento della libertà per l’Animale feroce così come la solitudine lo è per quello solitario.
Diviene lecito domandarsi, una volta per tutte, il reale significato e la reale portata della libertà a cui si mira: si cerca una libertà che sia pieno e fecondo sviluppo della soggettività, libera interazione con la natura interna ed esterna? Oppure ci si accontenta di una debole libertà borghese, in realtà fortemente repressiva nella quale i due studiosi canadesi vorrebbero includere anche gli Animali?
Con tali premesse non risulta una sorpresa scorgere, andando avanti con la lettura dell’articolo, questa frase:
“Usarli [gli animali] non significa necessariamente sfruttarli.”5
Gli autori ne sono fermamente convinti. Ma questa loro convinzione non è frutto di idee malsane individuali bensì di un approccio palesemente apolitico alla liberazione animale, approccio la cui responsabilità ricade anche e soprattutto sui gruppi e soggetti antispecisti più in vista (è ragionevole domandarsi quale sia l’antispecismo più in vista che non sia assimilabile al semplice animalismo) che raramente, forse mai, hanno praticato una battaglia trasversale e organica con obbiettivo la Liberazione. L’accettazione, per ignoranza o per scelta, di tutto un impianto socio-economico retto dall’appropriazione indebita del plusvalore, in cui la forza lavorativa è merce: trasferibile, precarizzabile, pauperizzabile, è una condizione che si rende più che mai necessario oltrepassare, in particolare quando a farsi strada sono idee e prospettive il cui fine non è altro che l’allargamento di quella gabbia dorata in cui viviamo, in vista di una ben più nutrita popolazione in grado di abitarla.
Il ripensamento radicale delle istituzioni contemporanee non è affatto slegato dal destino degli Animali. Concepire nuovi paradigmi relazionali tra Umano e Umano e tra Umano e natura coinvolge direttamente gli orizzonti di libertà da troppo tempo negati all’Animale. Cosa che non fanno Kymlicka e Donaldson e di cui McWilliams riporta l’idea secondo la quale
“L’onere di una stretta collaborazione non ricadrebbe solo sugli esseri umani. Anche gli animali avrebbero degli obblighi. Se ti comporti male e dimostri una volta di troppo di essere asociale, anche tu, cittadino animale, puoi essere condannato a una qualche forma di relativo isolamento (pur avendo diritto a una rappresentanza legale) o a seguire un programma di riabilitazione.”6
Ecco che dal cilindro del mago apolitico spunta una nuova (ma in realtà antichissima) istituzione: un carcere per gli Animali indisciplinati. È il trionfo del diritto borghese secondo il quale, piuttosto che comprendere le cause dei fenomeni, è bene procedere per eliminarne gli effetti. È il trionfo dell’addomesticamento, della repressione delle pulsioni primarie, della negazione di una vera libertà esprimibile soltanto in contesti naturali. L’ecologismo (non la semplice difesa dell’ambiente ma il ripensamento radicale dei rapporti tra l’Umano, gli altri viventi e l’ambiente), così lontano ma potenzialmente così vicino all’antispecismo, serve qui come il pane all’affamato. Concepire la liberazione animale senza prendere in considerazione gli spazi in cui gli Animali dovrebbero essere liberati, spazi necessariamente integri e in grado di ospitare e riprodurre la vita, è miopia acuta e degenerativa. In regime di proprietà privata, la possibilità che ha l’Animale di uscire dalla gabbia e toccare il suolo di una valle è legata esclusivamente alle capacità economiche di singoli che hanno a cuore il suo destino. Purtroppo, l’esistenza di altri singoli, immersi nella melma della speculazione, della cementificazione, della deforestazione, singoli che grazie alla struttura socio-economica vigente hanno sostanzialmente carta bianca, rende la prospettiva di una rete enorme di rifugi, in grado di ospitare gli Animali liberati, ancor più difficile proprio per una questione di rapporti di forza economici (prospettiva che, invece, McWilliams ritiene attuabile e adatta all’applicazione dell’idea di una cittadinanza animale elaborata da Kymlicka e Donaldson).
La cittadinanza animale concepita dagli autori di Zoopolis lascia intatto il potere di quei pilastri della società capitalista che rendono l’Animale una merce. Nessuna istituzione repressiva, nessuna centralizzazione economica e politica è messa in discussione. Più che di un “Potere animale” si è in presenza di un rafforzamento dell’impotenza animale al cospetto dell’ennesimo tentativo antropocentrico di negazione del non umano. La pericolosità di una simile prospettiva, oltre che nei contenuti, sta nella facilità con cui potrebbe sedimentarsi nell’orizzonte sociale; la società umana è forse già pronta ad accogliere un tale stravolgimento (ovviamente lento e graduale), ed è già pronta perché nessuna forza significativa le si sta opponendo. Il “come” si parla della questione animale dipende soprattutto da chi ne parla; l’assenza di un fronte deciso e politicamente preparato è la garanzia per una liberazione “a metà” dell’Animale. Che l’antispecismo sia d’accordo con questa “mezza” rivoluzione è qualcosa che è necessario chiarire nell’immediato futuro. Certo è che depotenziare in tal modo un’idea eversiva come nessun’altra, un’idea in grado di mettere in discussione il mondo intero e di cambiarlo, sarebbe un errore imperdonabile.
Danilo Gatto
Note:
1) James McWilliams, Potere animale, Internazionale 1184, p.60.
2) Cfr. AA.VV., Contro la Famiglia. Manuale di autodifesa e di lotta per minorenni, Stampa Alternativa, 1995, p.39, in cui è riportato il seguente passo: “Il controllo dello sfintere non viene ottenuto prima dei diciotto mesi di età, cosicché questa educazione prematura (alcune madri cominciano a quattro mesi) richiede la contrazione della muscolatura del corpo, specialmente i muscoli della coscia, del deretano, del pavimento pelvico, come anche la ritrazione della pelvi e un’ulteriore inibizione respiratoria.”
3) https://it.wikipedia.org/wiki/Addomesticamento
4) Citato in Murray Bookchin, L’ecologia della libertà, Elèuthera, 2010, pp. 429-430.
5) Citato in James McWilliams, Potere animale, Internazionale 1184, p.61.
6) Ibidem.
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Ammetto che ho la bocca aperta per lo stupore. Lei sta forse proponendo di abolire i cani per ciechi ,amati peraltro dai loro “padroni”? Difficile che ,per l’appunto , migliaia di anni di addomesticamento possano restituire ai Corgi della Regina d’Inghilterra il loro fiero aspetto lupesco…La cittadinanza animale non esiste. Da che esiste l’uomo, la cittadinanza è comune, nel bene e nel male. Esiste animale ed umana non cooperazione bensì coesistenza. A un bimbo ospedalizzato può giovare l’incontro con un animale…C’è gente che continua a vivere solo grazie alla compagnia di un animale “addomesticato”. Il suo ragionamento è fantastico, nel vero senso della parola.
L’abolizione dei cani per non vedenti umani non è oggetto dell’articolo, è stato solo citato a scopo descrittivo. E’ evidente come il discorso attorno al quale ruota il testo sia l’opposizione all’addomesticamento delle specie animali come unica garanzia di libertà. In sostanza, l’unica maniera in cui essi possono essere “liberi”, secondo l’articolo apparso su Internazionale, è quella di inserirli forzatamente nel nostro sistema giuridico e nella nostra società, in cui, comunque, non hanno mai chiesto di entrare a far parte. Il problema di fondo è che la cittadinanza così com’è concepita oggi è di per sé un concetto inquinato: il cittadino ha dei diritti (peraltro pesantemente influenzati dalla mentalità borghese diffusa) ma soprattutto degli obblighi (qualcuno li chiama doveri), obblighi che necessariamente negano e limitano la libertà dell’essere umano. Concepire la liberazione animale seguendo lo schema degli autori di Zoopolis è, in realtà, emanare una sentenza definitiva sulla prigionia degli animali sotto il dominio umano.
Bè, io sono antiborghese e me ne infischio di diritti influenzati e figurarsi poi dei doveri o obblighi, che dir si voglia. Mi ritengo libero. Sono privo di vincoli psicologici. Non sono sereno come un buddha ma neppure drighigno i denti dalla rabbia repressa. E quando vado a comprare il giornale, saluto cortese quel vecchietto con il suo cane…Relax.
Vic Dalla Rosa,
Per correttezza da molto tempo i tuoi commenti molesti vengono pubblicati su Veganzetta, non per rispetto alla tua persona, ma per l’idea di libertà e uguaglianza che dovrebbe accomunarci tutte/i quando si parla di antispecismo.
Anche a tale rispetto però c’è un limite (come per tutte le cose che ci riguardano).
Tu non sei libero perché non concepisci in alcun modo la libertà a cui gli altri aspirano. Non sei sereno né digrigni i denti, perché parli di argomenti che non ti sfiorano affatto e lo fai per il solo piacere di molestare gli altri: solo da questo deriva la tua apparente calma olimpica che suona di superficialità e distanza.
Con questo commento il presente sito web si libera della tua mediocrità una volta per tutte e nessun altro tuo intervento verrà pubblicato in futuro.
Relax.
Bravo! Era veramente ora!
45 minuti di applausi!!!!!
E’ una previsione terrificante, d’altronde è la piega che ha preso da tempo la cosiddetta “civiltà” che diventa progressivamente sempre più incivile e folle.
Spesso mi sono chiesta ma le diverse famigle animali, uso questo termine al posto di razza o specie che non mi piacciono, si estinguono solo a causa dell’essere umano, dell’inquinamento ambientale-atmosferico o per progredire in una manifestazione più evoluta?
Ha senso cercare di salvare a tutti i costi, alcune famiglie animali dalla certa estinzione per rinchiuderli in parchi protetti o ambienti non a loro affini, visto che il loro abitat naturale è stato distrutto?
Gli umani sono diventati troppi e hanno preso tutto lo spazio (fisico, mentale, emotivo), lo hanno trasformato, reso iriconoscibile e incomprensibile, la terra è già un pianeta prigione.
Ha senso salvare qualcuno se poi non riesco a garantirli la sua libertà, l’autodeterminazione, una vita degna di essere vissuta? Non è forse un indicibile crudeltà obbligare una famiglia animale alla sopravvivenza in una prigione per l’ egoicità umana? Non sarebbe più compassionevole lasciare che si estingua perchè non ci sono più, e non ci saranno nemmeno in futuro le condizioni per una vita, e lasciare che quelle forze vitali si congiungano con l’universo dove saranno libere da costrizioni e condizionamenti umani?
L’onnipotenza umana si è spinta talmente oltre che non solo si è presa il diritto di manipolare la vita ma anche la morte. L’ animale non è più libero di vivere è stato privato totalmente dalla sua autodeterminazione e questo si rende palese proprio perchè non è nemmeno più libero di morire.
L’animale sa quando è il suo tempo di morire, è molto più consapevole dell’ umano nei cicli della vita, quando è stanco o ammalato o imprigionato si lascia semplicemente morire. L’umano da tempo è talmente schiavo che non può nemmeno più determinare la propria morte. E’ delegata alla volontà altrui e se trasgredisci queste regole sei punibile e aggredibile psicologicamente, fisicamente (accanimento terapeutico) e legalmente. Vogliamo privare quelle poche famiglie animali rimasti, in quei pochi ambienti semi liberi al mondo anche dell’ ultima libertà rimasta loro, quella di morire?
Forse varrebbe la pena rifletterci su.
In quest’ottica, a mio parere, assume un’importanza fondamentale l’ecologismo. La difesa e la liberazione degli spazi naturali dall’aggressione del capitalismo è un elemento inscindibile dalla liberazione animale perchè libertà non è semplice concessione della sopravvivenza ma possibilità di espletare la propria natura individuale e specie-specifica. Senza liberazione degli spazi non può esistere alcun tipo di liberazione, soltanto una sua forma molto parziale.
Si sono d’accordo l’ecologismo dovrebbe essere parte integrante dell’ antispecismo così come una visione dell’ insieme e inclusiva di tutti i movimenti di liberazione che invece essere frastagliati e antagonista tra loro, potrebbero divenire cooperanti.
Personalmente ritengo incomprensibile che chi lotta per i propri diritti di autodeterminazione, libertà e integrazione poi esclude invece tematiche che ritiene non gli competano. Per esempio le donne all’interno di un movimento femminista che si disinteressano totalmente della violenza e dello sfruttamento perpetrato sulla cosidetta “mucca da latte” in un primo momento per poi passare anche ad una presa di coscienza antispecista. Chi si autodefinisce antispecista e poi ritiene irrillevante tematiche lgbt e magari è contrario ad un matrimonio egualitario, oppure animalisti che sono all’ oscuro di tematiche ambientali e ecologiste. Se ne potrebbero fare a bizzeffe di esempi. Con questo non voglio dire che se mi occupo del diritto animale devo anche occuparmi in prima persona di femminismo ma almeno dovrei cercare di diventare cosciente dei miei personali condizionamenti che mi portano poi sul piano quotidiano a discriminare o a svalutare il genere femminile, gli africani, i gay, la famiglia dei rettili ecc. appunto tutto ciò che percepisco come altro da me. Nello stesso tempo se sono antispecista nel mio piccolo cerco di impegnarmi almeno di non usare determinati prodotti altamente inquinanti, fin dove posso, anche se non mi impegno direttamente all’ interno di un movimento ecologista. Diventare sensibile e cosciente è il primo passo per poi in un secondo momento poter far parte attivamente di più movimenti che apparentemente non centrano uno con l’altro ma che in realtà sono fortemente interseccati e interdipendenti per creare quelle sincronie che portano ad una liberazione non solo parziale ma nel vero senso della parola, quindi integra.
Per questo quando pubblicamente si affrontano temi quali antispecismo, diritti lgbt, femminismo, anarchia, ecologia, permacultura, antirazzismo ecc. ho l’impressione che gli interlocutori quasi sempre stanno all’ interno di reparti stagni, schemi e visioni parziali. Se faccio un discorso tematico non posso escludere o tacere del tutto quelle tematiche che sono connesse, ma dovrei essere almeno in grado di far percepire al pubblico che attraverso una visione dell’ insieme che quella tematica che sto affrontando include anche tutte le altre e che perciò quello che dovrebbe cambiare è il mio modo di percepire la realtà in quanto totalità. Che poi scelga di concentrarmi su alcuni aspetti va benissimo, ma essere a conoscenza di tutto ciò che ci ruota intorno non può piu essere un optional ma dovrebbe diventare un punto di partenza. Oggi in un epoca in cui tutto è diventato palese e visibile, in cui l’informazione e diventata facilmente fruibile in molte parti del mondo, non ci si può permettere di essere poco formati, ignoranti, esclusivisti, disinteressati, e curarsi solo del proprio piccolo orto. Quindi diventare consapevoli che quello che ora percepiamo come punto di arrivo in realtà dovrebbe diventare spontaneamente il nostro punto di partenza se realmente abbiamo a cuore la libertà.
Sono d’accordo. Il problema di questa frammentazione all’interno dell’antagonismo (antispecista, anticapitalista, femminista ecc…) è la mancata conoscenza delle cause dello sfruttamento animale, umano e della terra. Una volta comprese queste il passo per la creazione di un fronte di opposizione a tutto l’apparato del dominio è breve. Proprio sull’argomento ho riportato la mia idee su un articolo pubblicato qui su Veganzetta dal titolo: “Veganismo sociale. Per un’evoluzione politica dell’attuale attivismo antispecista”. Se ti va dagli un’occhiata.
In quel senso la mia libertà non può che essere la libertà di tutti. Ovvero la mia libertà è possibile solamente quando sono liberi anche gli altri. Io stessa sono libera nella misura in cui gli altri sono liberi da me. La libertà passa attraverso la capacità di lasciare andare il controllo sul mondo. Libertà e responsabilità viaggiano insieme sullo stesso piano, non posso affermare di essere libera se non sono responsabile delle mie azioni. Quindi per l’essere umano in questo momento potrebbe essere l’occasione di togliersi di mezzo, nel senso di smettere di interferire con tutto e di lasciare spazio, e autodeterminazione alle forme di vita che ritiene attualmente inferiori. Ogni forma di vita ha in se le capacità evolutive che la portano alla sua massima espressione nella forma in cui si presenta, dopo di che quella forma si trasformerà per lasciar spazio ad una forma più evoluta e non dobbiamo e non possiamo controllarlo, succede da se se non interferisco continuamente. Secondo il mio personale punto di vista l’essere umano, il meglio che potrà fare oggi è quello di preservare (ecologia) più spazio possibile, rendere quello spazio inviolabile (starsene proprio fuori), ridimensionare il turismo che è una vera e propria piaga, non interferire con le famiglie animali se non che quando succede di incrociarsi spontaneamente, per poi ognuno proseguire nella propria direzione senza disturbare l’altro. Spero non venga percepito come fuori tema, sono rimasta sul generico toccando diversi temi che poi andrebbero approfonditi singolarmente tenendo presente anche l’esistenza interseccante di tutti gli altri temi.